accessibilità
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Scusi, posso accedere?

SenzanomeAvevo promesso in questo precedente post un’articolo sull’accessibilità. Scoprii per la prima volta a mie spese questa nuova parola durante la mia esperienza universitaria a Pisa. Fu un’esperienza molto breve: un solo anno a Scienze dell’Informazione. Abbandonai per mille motivi ma quello più importante era: “non riuscivo a seguire le lezioni”. Sicuramente ho sbagliato io. Forse ho proseguito gli studi mantenendo gli schemi e le abitudini ai tempi delle scuole superiori. Successivamente però mi resi conto di un altro aspetto: non ero proprio in condizioni a seguire le lezioni, seppur con tutta la buona volontà. Mancava qualcosa: fu proprio quell’esperienza brutale a rinfacciarmelo a muso duro. Non c’era accessibilità. Da lì iniziai a riflettere sui miei limiti.Probabilmente scattò la molla che mi portò a frequentare l’ENS ed a impegnarmi attivamente.

Quando si parla di accessibilità la prima cosa che viene in mente è quella fisica. Per rendere accessibile un locale a un disabile motorio, si guardano i bagni, l’ascensore, eventuali scalini, la larghezza delle porte e via dicendo. La volontà di eliminare gli ostacoli si trova quasi sempre, anche quando talvolta ci troviamo di fronte a difficoltà strutturali. Si trovano pure i fondi in maniera abbastanza agevole: forse aiuta l’idea di intervenire per eliminare il problema una volta per tutte. E’ una spesa che rappresenta anche un investimento. Si usufruisce di detrazioni e agevolazioni, si fa bella figura ed è finita lì. Pure l’approccio è completamente diverso. “e  che diamine!” senti dire. “È un sacrosanto diritto, l’accessibilità ai disabili! Mica colpa loro se non possono o hanno difficoltà a camminare!”
PErò non è così quando alzo il ditino e pongo il problema dell’accessibilità sensoriale. Il malcapitato interlocutore strabuzza gli occhi. Assume un’espressione variabile tra “ma che caspita dice questo qui?” e “miseria, non ci avevo pensato!”. Quando spiego che esistono anche le disabilità sensoriali (ciechi e sordi) e che le barriere in questo caso non sono architettoniche ma della comunicazione, mi ascoltano interessati.  In effetti non è cosa di tutti i giorni. Quando poi realizzano che il costo del loro abbattimento non è una volta per tutte, apriti cielo. Li vedi arrampicarsi sugli specchi adducendo varie scuse con il solo risultato di peggiorare la situazione.
Sono passati ormai diversi anni da quella traumatica esperienza universitaria in cui ho scoperto l’esistenza e l’importanza vitale dell’accessibilità e da allora ci ho pensato al punto da dedicarne parte della tesi di laurea. Con il tempo e l’esperienza, ho costruito una personale visione dell’accessibilità. Possiamo distinguere l’accessibilità in due categorie: tecnica e culturale.
L’accessibilità tecnica è forse quella più facile da ottenere: è in sostanza l’insieme degli ausili e degli strumenti che permettono effettivamente alla persona sorda di recepire le informazioni del contesto. Si pensi ai sottotitoli, al servizio di stenotipia, di interpretariato. Si pensi pure agli accompagnatori, agli ingranditori visivi, al Braille per le persone cieche. Aggiungiamoci pure gli avvisatori luminosi e sonori, gli scivoli e le protesi di vario tipo. Con questi strumenti si permette a chiunque, non solo ai disabili, di “accedere” agevolmente al contesto.
L’accessibilità culturale invece è molto più ostica. La definisco come un termometro con la quale possiamo misurare l’accoglienza dell’altro a prescindere. Non è abitudine infatti vedere il disabile come persona con potenzialità e risorse da coltivare. Lo si vede spesso come un estraneo o diverso, e si tende, spesso senza accorgesene, a sottolineare, talvolta con eccessiva forza, i suoi limiti ed il suoi difetti. Un’elevata accessibilità culturale, a mio parere, comporta una scontata accessibilità tecnica. Quando si considera la persona come una risorsa con delle diverse abilità e delle esigenze particolari, si è consapevoli che è necessario a priori ri-programmare tutti i servizi offerti a misura di tutti. Almeno senza attendere che qualcuno “alzi il ditino e ne chieda l’accessiblità”. Troppo spesso quando si organizzano eventi di qualunque tipo, si creano servizi pubblici o privati rivolti alla cittadinanza, si costruiscono nuovi sportelli, nuove attività, ci si accorge che questo tasto dell’accessibilità non viene mai toccato.
Un esempio è l’Expo 2015. Milioni di euro spesi per costruire su qualcosa come oltre un milione di metri quadri per un evento di risonanza mondiale che richiama ogni giorno migliaia di persone da ogni dove. Ebbene abbiamo dovuto alzare il ditino per chiedere l’accessibilità alle persone sorde. Tuttora non si è mosso nulla. Sei mesi sono lunghi magari qualcosa succederà ma comunque sia si tratta sempre di un’accessibilità a richiesta. Se andate nel sito alla pagina “accoglienza disabili”, vedrete che è garantita l’accessibilità motoria. Riporto testualmente: “i percorsi all’interno del Sito Espositivo e alcuni Padiglioni sono dotati di percorsi pedo-tattili a pavimento e mappe tattili che consentono l’orientamento in autonomia delle persone cieche”.
E i sordi? Si sono dimenticati di noi? “Adesso non è più un nostro sacrosanto diritto? E’ colpa nostra se non possiamo o abbiamo difficoltà a comunicare?” C’è pure chi sostiene che abbiamo scelto noi di non parlare. Non è gelosia nei confronti dei disabili motori, come potrebbe sembrare. È solo la consapevolezza che sia necessaria una visione di insieme.  Finchè non si prevede a priori l’accessibilità come uno standard minimo per tutti, nessuno escluso, non saremo mai una società aperta, accogliente e multiculturale.

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